Uno dei timori più diffusi riguardo l’alimentazione, è quello di consumare, assieme al cibo, metalli, antibiotici, additivi, inquinanti, ormoni e varie altre sostanze cui si imputano  effetti nefasti di ogni tipo.  Ma qual è la vera entità del rischio? Sappiamo davvero interpretare correttamente certi numeri?

Quando si parla delle sostanze contenute negli alimenti che consumiamo, si tratti di alcuni nutrienti o dei tanto temuti contaminanti, si ha spesso a che fare con quantità molto basse, il cui valore reale è difficile da inquadrare in maniera corretta. Questo spesso genera ansie e dubbi, portando a stime errate del rischio legato al consumo dell’alimento in esame.

Più o meno tutti riescono a valutare senza problemi quantità che maneggiano quotidianamente, dai chili, agli etti, ai grammi. I problemi iniziano quando le quantità diventano davvero piccole e si cominciano a utilizzare sottomultipli  e sigle che a molti possono apparire decisamente misteriosi.

I numeri in gioco

Nell’analisi chimica di un alimento si utilizzano unità di misura ponderali che suonano misteriose: si parla  di microgrammi, nanogrammi, parti per milione o addirittura parti per miliardo, grandezze decisamente poco intuitive ma il cui reale significato andrebbe invece apprezzato in pieno per poter valutare correttamente i rischi connessi alla presenza  di una certa sostanza in un alimento.

Immaginiamo che un’azienda produca delle viti. I controlli eseguiti sui prodotti trovano una vite difettosa ogni milione di pezzi prodotti. Se le viti sono vendute in confezioni da 100 pezzi troveremo una singola vite difettosa in una confezione su 10.000. Stiamo parlando di parti per milione (sigla p.p.m.).

Se l’azienda migliora le tecniche di lavorazione potrebbe arrivare a ridurre il numero di viti difettose prodotte, di modo che se ne abbia soltanto una ogni miliardo di pezzi prodotti. In pratica troveremo una vite difettosa in una confezione ogni dieci milioni. Stiamo parlando di parti per miliardo (sigla p.p.b. la b sta per billion, miliardo in inglese).

In azienda sono davvero pignoli, si migliorano ancora i processi di produzione e si arriva a produrre una sola vite difettosa ogni mille miliardi di pezzi. A questo punto troveremo una vite difettosa in una confezione ogni dieci miliardi. Stiamo parlando di parti per trilione (sigla p.p.t.).

Valori come p.p.m. o p.p.b. possono essere ovviamente riferite anche alle unità di peso di uso comune in genere un poco più intuitive. In questo caso è utile conoscere bene i sottomultipli del grammo che ci troveremo ad utilizzare.

  • milligrammo =  mg = un millesimo di grammo = 10-3 g
  • microgrammo = mcg o μg = un milionesimo di grammo = 10-6 g
  • nanogrammo = ng = un miliardesimo di grammo = 10-9

A questo punto a molti comincia a girare la testa, ma è necessario conoscere e avere familiarità con questi ordini di grandezza per valutare davvero i rischi relativi a contaminanti e composti estranei presenti negli alimenti. Le parti per unità ovviamente possono essere convertite in unità di peso comuni:

  • 1 parte per milione = 1 ppm = 1 mg/Kg = 1 grammo per tonnellata
  • 1 parte per miliardo = 1 ppb = 1 mcg/Kg = 1 milligrammo per tonnellata
  • 1 parte per trilione = 1 ppt = 1 ng/Kg = 1 milionesimo di grammo per tonnellata

Spero che adesso siano più chiari gli ordini di grandezza di cui spesso di parla. Per rendere più immediato e lampante il concetto se al posto dei grammi andiamo a sostituire i secondi avremo che:

  • 1 ppm corrisponde a un secondo ogni dodici giorni circa
  • 1 ppb corrisponde a un un secondo ogni 31 anni e mezzo
  • 1 ppt corrisponde a un secondo ogni 31.709 anni circa
Alimentazione e valutazione del rischio alimentare, le grandezze e gli ordini di grandezza coinvolti

Con strumenti di ricerca sufficientemente potenti, come quelli che abbiamo oggi a disposizione, è possibile trovare il classico ago nel pagliaio: rimane da vedere se la presenza dell’ago rappresenta un rischio reale.

Il rischio reale

Adesso che abbiamo un’idea delle quantità in gioco riflettiamo un attimo sulla natura delle tecniche analitiche che utilizziamo per rilevare la presenza di contaminanti negli alimenti.  I metodi di analisi utilizzati sono caratterizzati dalla loro specificità e sensibilità.

  • La specificità del metodo indica la capacità di rilevare una determinata sostanza in presenza di altre sostanze molto simili.
  • La sensibilità del metodo indica, in maniera semplificata, la quantità minima di una sostanza che è possibile rilevare utilizzandolo.

Attualmente si utilizzano metodi estremamente sofisticati in grado di rilevare quantità molto piccole di contaminanti ed altre sostanze. Ad esempio, con tecniche GC-HRMS (gas cromatografia/spettrometria di massa ad alta risoluzione) è possibile rilevare la presenza di 1 ng/Kg di residui di ormoni steroidei — utilizzati in alcuni paesi per un più rapido accrescimento del bestiame — nel fegato di bovini: stiamo parlando di una parte per trilione ovvero di un secondo ogni 31.000 e passa anni, come dicevamo sopra.

Ovviamente con strumenti di questo tipo è praticamente scontato che un’analisi accurata possa rivelare la presenza di un determinato contaminante: la cosa importante è stabilire se le quantità rilevate possano avere un qualche significato biologico o si debbano considerare trascurabili. Il rischio è che si vadano a evidenziare tracce di sostanze, in quantità così piccole da essere praticamente prive di effetto biologico, andando a suscitare falsi allarmi, sospetti, paure, che possono condurre a scelte alimentari poco ponderate in assenza di un rischio reale.

Lo zero analitico, la completa assenza di una determinata sostanza dal campione esaminato, è una chimera: dipende infatti dalla sensibilità del metodo utilizzato e oltre un certo limite diventa ovviamente  inutile spingere l’indagine, si finirà infatti per rilevare delle tracce che hanno uno scarso significato dal punto di vista biologico. Ad esempio, sapevate che nel sale rosa dell’Himalaya, beniamino di salutisti e fanatici del cibo naturale dell’orbe terracqueo intero, si trovano anche elementi chiaramente pericolosi come uranio e plutonio? La quantità è ovviamente bassa, stiamo parlando di 1 ppb, un microgrammo per ogni kilo di sale, ma siamo comunque in grado di rilevare quantità di questo tipo, del tutto ininfluenti dal punto di vista biologico. [1]

Quello che ci deve interessare, relativamente ad una determinata sostanza, non è quindi misurarne con precisione l’effettivo contenuto in un campione di cibo, ma individuare invece la quantità che può essere presente senza alcun danno per chi la consumi, una sorta di zero biologico che in realtà e molto difficile da quantificare; stiamo parlando di processi complessi, con un gran numero di variabili in gioco, che richiedono la valutazione di effetti acuti, immediati, ma anche di effetti in cronico e addirittura in generazioni successive. Ovvio che si dovrà lavorare con prudenza, tenendo conto di popolazioni più a rischio —  donne incinte, bambini o anziani — valutando frequenza di consumo, modalità di preparazione, assorbimento intestinale, metabolismo e interazioni con altri cibi e sostanze.

Nel campo della sicurezza alimentare, per contaminanti, additivi e sostanze ritenute nocive, si mira ad individuare la Dose Giornaliera Accettabile (DGA), la dose che può essere assunta ogni giorno, per tutta la vita, senza provocare alcun danno. In questo settore si utilizza una terminologia ben precisa, che permette di affrontare in modo chiaro e privo di fraintendimenti il problema:

  • Dose Senza Effetto Osservato (NOEL no observed effect level) la dose massima che NON provoca, nella specie animale più sensibile, alcun effetto nocivo, sia in acuto, sia in cronico. Di solito si esprime in milligrammi per kilogrammo di peso corporeo per giorno.
  • Fattore di Sicurezza (SF safety factor) un fattore che viene applicato alla NOEL per ottenere la dose gionaliera accettabile. Ha lo scopo di dare un ulteriore margine di sicurezza. Il NOEL ottenuto su di un animale diviene NOEL per l’uomo utilizzando un fattore 100, dove 10x va a correggere la differente sensibilità tra animale e uomo e 10x a coprire le variazioni di sensibilità nella popolazione umana.  Quando sono disponibili studi su umani si utilizza un fattore di 10, mentre nel caso i dati sperimentali siano carenti si potrà arrivare ad utilizzare un fattore 1000.
  • Dose Giornaliera Accettabile (ADI acceptable daily intake) la dose che può essere assunta ogni giorno, tutta la vita, senza alcun danno. Si calcola dividendo la NOEL per il fattore di sicurezza.
    ADI (dose giornaliera accettabile) = NOEL (dose senza effetto osservato) / FS (fattore di sicurezza)
    Viene indicata in milligrammi per kilogrammi di peso corporeo per giorno e in pratica può andare da  un decimo ad un millesimo della quantità che non provoca inconvenienti osservabili.
  • Livello di tollerabilità (TL tolerance level) il livello della sostanza in esame teoricamente accettabile nell’alimento consumato, dipendente dal valore dell’ADI e dalla quantità di alimento consumata:
    TL = ADI x peso corporeo in Kg / quantità di alimento consumata in un giorno
    La quantità è misurata in  grammi/die per i cibi solidi in litri/die per quelli liquidi. Il TL è molto importante perché prende in considerazione l’effettivo consumo dell’alimento che contiene la sostanza di cui si valutano i potenziali rischi e le caratteristiche fisiche dell’individuo.

Questi parametri sono il frutto di lavori di ricerca approfonditi e continui e hanno come obiettivo quello della massima sicurezza della popolazione nei confronti di additivi, contaminanti, pesticidi e xenobiotici.[2, 3]

Bisogna partire da questi valori per poter effettivamente valutare il rischio legato al consumo di sostanze presenti in alimenti e bevande. Facciamo qualche piccolo esempio.

Prendiamo in esame una delle sostanze più discusse negli ultimi anni, il glifosato, utilizzato nella formulazione di erbicidi e pesticidi ampiamente utilizzati in agricoltura. L’ADI per il glifosato è di o,5 milligrammi per kilogrammo di peso corporeo al giorno ed è stata stabilita attraverso un lavoro molto lungo, con molteplici revisioni vista la delicatezza del tema. In pratica per un soggetto di 70 kg di peso l’ADI è di 35 milligrammi al giorno.

Di recente sui giornali sono apparsi diversi articoli che riportavano i risultati di alcuni lavori volti a valutare la presenza di glifosato in alimenti e bevande. Uno studio del Munich Environmental Institute, istituto ambientalista tedesco, ha rilevato residui di glifosato nelle birre prodotte in Germania, con valori compresi tra 0,46 e 29,74 microgrammi per litro. Allarme immediato e costernazione! Tuttavia è necessario notare che anche se si bevesse esclusivamente la birra con il contenuto più elevato — Hasseröder Pils, per i più apprensivi — sarebbe necessario scolarsi qualcosa come mille litri di birra ogni giorno per raggiungere l’ADI, una quantità il cui consumo è ritenuto privo di rischi. Non esattamente una situazione di immediato pericolo.
Uno studio analogo è stato condotto sui vini prodotti in California, dove sono stati riportati valori, su un numero limitatissimo di campioni, compresi tra 0,7 ppb e 19 ppb. Vi ricordo che ppb sta per parti per miliardo: stiamo parlando di anche qui di microgrammi per kg (un milionesimo di grammo per kg, litro approssimando, di vino). Anche qui per raggiungere la Dose Giornaliera Accettabile si dovrebbero bere più di 1300 litri di vino al giorno.

La sensibilità dei sistemi di indagine utilizzati nelle analisi permette di evidenziare la presenza di quantità molto ridotte della sostanza cercata. Ciò non significa che quelle quantità abbiano un qualche significato biologico. Si tratta di valori molto ridotti, migliaia di volte inferiori rispetto all’ADI, che a sua volta è centinaia di volte inferiore rispetto alla quantità in grado di creare problemi nella specie più sensibile.

Parlando di Glifosato nelle bevande alcoliche appare evidente anche come siano in azione delle distorsioni cognitive rilevanti quando ci si approccia a questi temi. Il glifosato è sotto stretta indagine perché si teme possa essere cancerogeno. L‘AIRC (Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro) lo ha recentemente classificato come una sostanza probabilmente cancerogena (categoria 2A). In questa stessa categoria si trovano carne rossa, fritture a temperatura elevata e bevande calde (oltre i 65°C), oltre che a farmaci e a sostanze di diversa natura ed utilizzo.Un giudizio meno netto è quello di FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura), OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) e EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) secondo i quali, sulla base degli stessi dati utilizzati da AIRC, è “improbabile che il glifosato possa essere cancerogeno per l’uomo“. In bevande alcoliche come il vino e la birra, accanto ai residui di glifosato, si trovano quantità molto, molto più elevate di una sostanza che l’AIRC già dal 1988 ha classificato come cancerogena per l’uomo (categoria 1A): stiamo parlando dell’alcol etilico. In questo caso non esistono dubbi e si stima che il 10% dei tumori negli uomini e  il 3% dei tumori nelle donne possa essere imputabile al consumo di alcol. Il rischio è legato alla quantità complessiva di alcol consumata, con soglie intorno ai 20 g/die per gli uomini e 10 g/die per le donne. Stiamo parlando di due bicchieri di vino da 125 ml per i maschietti e un solo bicchiere per le signore. Permettetemi di osservare che preoccuparsi del consumo di due milionesimi di grammo di una sostanza di categoria 2A mentre si stanno consumando dieci grammi di una sostanza di categoria 1 sia un poco sciocco; il che non significa che io sia a favore o meno dell’uso di glifosato o del consumo di alcolici: si tratta semplicemente di un esempio per aiutarvi a mettere in prospettiva numeri e rischi reali e come molto spesso abitudini, pregiudizi, difficoltà nel maneggiare ordini di grandezza, influenzino in maniera drammatica la nostra percezione del rischio, portandoci ad ingigantirne alcuni e minimizzarne altri. [4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13]

Fare terrorismo alimentare è facile. Basta urlare a pieni polmoni che una qualche sostanza, meglio se dal nome complesso e indiscutibilmente “chimico“, si trova in una qualche quantità negli alimenti che consumate e il gioco è fatto (Bonus-point se la sostanza è prodotta o ricollegabile, in meno di dodici stadi di separazione, a Monsanto, Big Pharma o Illuminati di Baviera). Un altro piccolo esempio: la formaldeide, CH2O, è un composto gassoso ampiamente utilizzato in soluzione acquosa, lo conoscerete con il nome di formalina: si tratta di un potente battericida e IARC lo classifica come cancerogeno per l’uomo (categoria 1A). La cosa singolare è che la formaldeide si trova naturalmente in molti cibi e addirittura si forma nell’organismo dei mammiferi, uomo incluso, come sottoprodotto di alcuni processi metabolici. In frutti come pere e mele si possono avere fino a 20 mg/kg di formaldeide. E la formaldeide è addirittura utilizzata nella produzione di alcuni formaggi, dove la troviamo indicata dalla sigla E240. Ci sarebbe da avere paura visto che l’esposizione a formaldeide è un sicuro fattore di rischio per varie forme di tumore, in particolar modo del tratto oro-faringeo quando venga ingerita. Basandoci tuttavia sul consumo medio di questi frutti e di altri cibi contenenti formaldeide possiamo vedere che siamo ben al di sotto dei livelli di tollerabilità, e migliaia di volte al di sotto delle quantità che negli studi su animali hanno mostrato di poter portare allo sviluppo del cancro. La formaldeide nel cibo è presente, possiamo dosarla senza alcuna difficoltà e con elevata sensibilità, ma le quantità rilevate non sono tali da destare preoccupazione ( e stavolta è andata bene ai melariani, via). Certo che se qualcuno titolasse “C’è del pericoloso metanale nella tua frutta: clicca qui per scoprire come può causarti il cancro!” sono convinto che riuscirebbe a racimolare rapidamente una rilevante quantità di visualizzazioni. [14, 15, 16]

Alimentazione e valutazione del rischio, grandezze e bias cognitivi

Qual è la sostanza più pericolosa che si trova in questi bicchieri di vino? Pensateci bene, prima di rispondere.

Conclusioni

L’intento dell’articolo non è quello di convincervi a irrorare ogni mattina di glifosato il vostro giardino,  mentre evitate il vino e schifate le mele — anche se non dubito che ci sarà chi suggerirà questa interpretazione ascrivendomi a svariati libri paga di altrettanto varie e minacciose multinazionali. L’intento è molto più semplice: abituarvi a considerare con attenzione gli ordini di grandezza coinvolti quando si parla di additivi, contaminanti e xenobiotici, per non farsi ingannare da valori e misure con cui molte persone hanno decisamente poca dimestichezza, e per non incorrere nei più comuni bias cognitivi, quelle distorsioni della valutazione che ci portano a scelte basate più su pregiudizi e abitudini che su solidi dati.

Informarsi non significa cercare una fonte qualsiasi che confermi la nostra visione del mondo, ma cercare di capire come funzionino certi processi, cosa si stia valutando, con quali modalità e per quali finalità; per fare scelte davvero consapevoli e informate, come si usa dire oggi, ed evitare i rischi reali e non quelli immaginati.


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